Mills, l’avvocato che sapeva troppo
di Elio Veltri
Il 26 febbraio del 2005 i giornali italiani scrivono che Berlusconi ha corrotto David Mackenzie Mills, suo avvocato inglese, grande regista della costituzione delle società off shore della Fininvest e di Mediaset collocate nei paradisi fiscali, che hanno consentito alle società del Cavaliere di costituire fondi neri per centinaia di miliardi di vecchie lire e di evadere il fisco. Mills è stato testimone nei processi di Berlusconi “All Iberian”, tangenti Fininvest alla guardia di Finanza e “Sme”. Il noto avvocato, marito del ministro della Cultura del governo Blair è rimasto impigliato, questa volta come indagato, per un reato gravissimo, nel processo riguardante la compravendita dei diritti tv Mediaset, molto complesso, con propaggini in America e in Svizzera, diviso in tre filoni: uno, principale per appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio, nel quale sono imputati anche Berlusconi e Confalonieri; il secondo nel quale sono imputati Piersilvio e Marina Berlusconi per riciclaggio; il terzo nel quale è indagato l’avvocato Mills per corruzione in atti giudiziari.
Il 26 Aprile del 2005 il Corriere della Sera titolava: «Nuova inchiesta segreta: Mills teste comprato». Sottotitolo: «Dagli atti su Mediaset una indagine sull’avvocato che creò la rete off shore: pagato per mentire. La replica: falso». Pagato da chi, quanto e come? Pagato 600 mila euro da Berlusconi. Chi lo dice? Lo dice Mills. Anzi, lo dice due volte: in una lettera scritta al suo fiscalista Bob Drennan il 2 febbraio del 2004, riportata dall’Unità e in un interrogatorio reso davanti ai magistrati di Milano Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo. Poi si rende conto di averla fatta grossa per se stesso e per il Cavaliere perché le condanne per corruzione in atti giudiziari sarebbero certe, si pente e manda un memoriale alla procura di Milano nel quale afferma di essere stato frainteso e che aveva detto di avere ricevuto quel regalino per schivare il fisco inglese piuttosto rigoroso e i soci di studio, i quali, famelici volevano spartire la torta. Ma, l’abilissimo Mills, rinnegando i suoi «tricky corners» (curve pericolose) precedenti per tirare fuori dai guai il Cavaliere, si incarta, dice che si era sbagliato e che quei 600 mila euro li aveva avuti da Diego Attanasio, altro suo affezionato cliente italiano. Però Attanasio lo ha subito smentito: «Ma come potevo darglieli se ero in galera? E poi non conosco la banca di cui parla Mills».
Questi i fatti. Il partito azienda, il Giornale di casa Berlusconi, l’avvocato Ghedini, parlamentare-avvocato di Berlusconi hanno gridato allo scandalo della «giustizia ad orologeria». Perché a loro parere in prossimità delle elezioni queste cose non si fanno. Ma anche nel mese di aprile del 2005, in occasione della richiesta del rinvio a giudizio di Berlusconi e Confalonieri, imputati nel processo principale, avevano parlato di «giustizia ad orologeria». Poiché le elezioni in Italia ricorrono piuttosto di frequente, non sarebbe più chiaro dire che alcuni potenti non si possono processare? La maggioranza di governo che ne ha combinate di tutti i colori e ha cambiato la Costituzione avrebbe potuto costituzionalizzare l’impunità per censo e cariche politiche: chi possiede più di cento milioni di euro e ricopre la carica da parlamentare in su, non può essere indagato. Mi meraviglio che non l’abbiano fatto. Incredibile però è anche il comportamento di quasi tutta l’opposizione che ritiene sia meglio non parlare di queste cose. Bertinotti ha superato se stesso perché, come ricorda Travaglio nel suo Bananas, è riuscito a distinguere tra il cittadino Berlusconi e il premier Berlusconi. E all’estero cosa ne pensano? Quando Berlusconi fu assolto con prescrizione nel processo Sme, El Pais, Suddeutsche Zeitung, Taz, Liberation, The Independent, New York Times, scrissero parole di fuoco che certo non migliorarono l’immagine dell’Italia in Francia, Spagna, Germania, America, Inghilterra. Siamo certi che se i nostri giornalisti si comportassero allo stesso modo nelle trasmissioni televisive, il capo del governo non ne uscirebbe con le ossa rotte e non sarebbe costretto alle dimissioni e non da oggi?
Ma il caso Mills pone anche un altro problema di grande rilevanza, ignorato dal governo e da Tremonti, che, purtroppo, non trova spazio nel programma di Prodi. Ed è il problema delle società off shore collocate nei paradisi fiscali. Tutte le vicende giudiziarie riguardanti enormi evasioni fiscali, costituzione di fondi neri, crac finanziari, scalate a banche e industrie, fatti di terrorismo, chiamano in causa società off-shore e paradisi fiscali. Inoltre è lì che la finanza pulita si incrocia e si mescola spesso con la finanza sporca. In un articolo sull’Espresso di Moises Naim (8 settembre 2005) si legge: «L’attivo delle principali banche centrali del mondo è cresciuto dai 6,8 trilioni di dollari del 1990 ai 19,9 trilioni di dollari del 2004; il volume giornaliero di valuta cambiata è passato dai 590 miliardi di dollari al giorno del 1989 agli 1,88 trilioni del 2004». Per farla breve: «Il mondo è diventato il paradiso dei trafficanti di denaro sporco e l’incubo dei governi che cercano di monitorare e regolare tale riciclaggio». L'Espresso scrive che «secondo il fondo monetario internazionale oggi il riciclaggio di denaro sporco rappresenta tra il 2 e il 5 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, ovvero tra gli 800 miliardi e i due trilioni di dollari». Il rischio di una condanna per chi traffica in denaro sporco è di circa il 5 per cento annuo. Secondo Nigel Morris Cottrill direttore del World Money Laundering Report chi ricicla denaro sporco cerca una struttura legale capace di fornirgli un rifugio e gli Stati Uniti sono un vero e proprio paradiso fiscale. Il regno Unito non è da meno. Cosa si può fare? Una grande battaglia nell’Unione Europea mettendo il problema al primo posto dell’agenda politica dei prossimi tre anni con l’obiettivo di portarlo, con l’Europa compatta, in sede Onu. L’Italia potrebbe dare l’esempio vietando alle società quotate e alle banche di aprire sedi nei paradisi fiscali. Perché anche i fondi neri, l’evasione fiscale e i proventi della corruzione costituiscono denaro sporco.