I Dodici Ponti dell’Hung Kuen: un po’ di chiarezza

12 bridgesPremessa. Fino a metà anni 2000 ben pochi in Europa avevano sentito parlare di Hung Kuen (letteralmente: il “pugno”, ovvero lo “stile” di Hung) detto anche Hung Gar, la famiglia di Hung (ma a me piace di più “Kuen”, perché per me “famiglia” è la scuola del mio maestro Chan Hon Chung, dove ho vissuto e imparato la disciplina).  Poi, con l’esplosione di Internet, anche le arti marziali si sono aperte al mondo, su blog, video e oggi pagine Facebook. E’ comparso di tutto e di più, un diluvio di informazione con pessimo rapporto segnale/rumore, a causa del quale il lettore meno smaliziato rischia di bersi le sciocchezze che spesso tocca leggere.

Uno dei temi trattati di più e peggio a proposito di Hung Kuen è quello dei Dodici Ponti. Così ho deciso di fare un po’ di chiarezza con questo articoletto, risultato di vari elementi. Innanzitutto 37 anni di pratica dell’Hung Kuen (all’antica: pochissime parole, un po’ di imitazione, un po’ di correzioni e tanta tanta tanta pratica). Poi della fruizione di tutto il materiale che si è reso disponibile nei tempi recenti, tra cui l’eccellente tesina di Gam Bok Yin. Finalmente, il confronto con altri appassionati della disciplina.

NB: Per la romanizzazione di questo articolo, contrariamente al mio solito, ho usato il Yale Cantonese, perché secondo me rende meglio la musicalità della poesia con cui si tramandano i Dodici Ponti.

Pronti via.

Hung Kuen è uno *stile* (ovvero un sistema di combattimento marziale), ma è anche – e soprattutto – un *metodo*  costruito su solide basi: morali (onestà, temperanza, tenacia, generosità, eccetera), tecnico-motorie (gli animali, gli elementi, la respirazione, le forme) e – finalmente – concettuali, i Dodici Ponti.

La parola “ponte” rende bene l’idea: i Dodici Ponti sono metodi diversi per collegarsi con l’avversario, neutralizzare il suo attacco, prendere il controllo della situazione e finalmente sconfiggerlo. Non sono – attenzione! – tecniche specifiche (“metti la mano così” o “assumi questa posizione”), ma definiscono  modi complessi di porsi e agire in relazione all’avversario, che coinvolgono il praticante nella sua interezza. Pertanto i Dodici Ponti non si allenano di per sé, ma salgono a consapevolezza, ovvero vengono percepiti e compresi nel tempo, dopo anni di pratica.

Gam Bok Yin ha elencato una serie di frasi che possono aiutare a comprenderne il concetto, ne riporto alcune: una strategia per arrivare a controllare l’avversario, la connessione con l’avversario, la strategia per creare un ponte con l’avversario a proprio vantaggio, l’accesso ai punti deboli dell’avversario, la strategia per sostituire il ponte dell’avversario con un altro a proprio vantaggio.

I Dodici Ponti si appoggiano a loro volta sui due elementi di base, profondamente e inscindibilmente compenetrati tra loro, riconoscibili in ogni artista marziale: l’elemento interno (ovvero l’attitudine emotiva e la connessione tra pensiero e azione) e quello esterno (ovvero l’azione, la connessione con l’avversario).

Excursus. Questa caratteristica (esplicitata con ammirevole chiarezza nell’Hung Kuen, ma in realtà comune a qualunque arte di combattimento) smonta la  divisione “interno – esterno” di stili, tecniche e allenamenti che (purtroppo) dilaga nel mondo occidentale delle arti marziali, spesso condita con esoterismi ed energie misteriose. Il praticante di ogni arte marziale è un’unità inscindibile di esterno e interno: corpo, funzioni vitali e pensiero, come qualunque essere vivente. Ogni suo gesto è il risultato di questa unicità, che per nessuna ragione può essere scissa, arricchita dalla pratica. Ma di questo parlerò semmai diffusamente in un’altra occasione. Fine dell’excursus.

Ciascuno dei Dodici Ponti definisce una condizione che è risultato della combinazione di diversi elementi: relazione tra elemento interno ed esterno, posizione, centro di gravità, direzione dell’azione, respiro, suono, equilibrio, azione muscolare, eccetera.

Com’è noto, l’arte marziale cinese è una cultura tradizionalmente tramandata oralmente. Per questo per ricordare i Dodici Ponti è stata creata una poesia in cui la misura standard di 14 ideogrammi è stata completata da due ideogrammi extra aggiunti in fondo (Kin4 – Kwan4, “giorno” e “notte”) che non modificano il contenuto e riprendono il concetto dei due ponti iniziali, Gong1 e Yauh4, “duro” e “morbido”.  Ho aggiunto delle definizioni ai Dodici Ponti, elencati con la romanizzazione in Yale Cantonese completa di gradi, ma sono necessariamente grossolane. NB: Il “lau4” ha due scritture con lo stesso suono, frutto dalla tradizione orale. Nella scuola di Chan Hon Chung si considera 留, che i cinesi traducono “reserve” e io interpreto come “conservare luna parte di energia ponendosi in condizione di relax attivo”.

剛 gong1: duro
柔 yauh4: morbido
逼 bik1: cercare la corta distanza
直 jik6: lungo, dritto
分 fan1: separare, aprire con energia
定 dihng6: rendere stabile la propria condizione
寸 chuen3: breve, corto veloce
提 taih4: dirigere la forza in fuori alto
留 lau4: porsi in relax attivo – 流 lau4: deviare la forza dell’avversario
運 wan6: sfruttare la forza dell’avversario a suo svantaggio
制 jai3: controllare, passando da morbido a duro
訂 dehng6: concentrare la forza abbassandosi

Un’ultima cosa. Si legge spesso che i Dodici Ponti verrebbero definiti e allenati con il Tit Sin Kuen, la forma ultima dell’Hung Kuen. Non è vero, almeno non lo era nell’Hon Chung Gymnasium al 729 di Nathan Road. Fin dal primo giorno di studio anche il nuovo studente di Hung Kuen comincia ad apprendere i Dodici Ponti. Ciò che cambia tra lui e chi ha completato il programma è la consapevolezza. Lo studio e la pratica del Tit Sin Kuen (se viene imparato correttamente, il che è abbastanza difficile visto che le persone in grado di tramandarne una versione pura sono pochissime) aiutano solo a portarli a maggior consapevolezza.

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